Se l’è cercata

Aveva fatto un errore.
Ne aveva fatti tanti in realtà, ma uno sopra tutto spiccava per l’idiozia.
L’aveva sottovalutata.
Non che avrebbe più potuto farlo. La pallottola che gli aveva penetrato il cranio e spalmato il cervello sul muro aveva sistemato definitivamente la questione di lui e dei suoi errori.
Stupido bastardo. Avrebbe dovuto lasciarla stare. Avrebbe dovuto lasciarla dov’era, nella sua vita.
Il cuore le batteva ancora forte mentre osservava il corpo senza vita sanguinare sul pavimento. Da qualche parte nella sua testa una voce le ricordò del piano. Doveva muoversi. Doveva muoversi adesso.
Come una sonnambula si alzò dal letto e lo aggirò, andando verso il muro su cui c’era la cassaforte. Scavalcò senza cura il cadavere. Molte volte nella sua testa aveva ripassato il piano e tante volte avrebbe voluto prendersi la soddisfazione di dirgli quello che pensava di lui, giocare un po’ con il suo dolore prima, magari sparandogli nelle palle, ma aveva visto abbastanza film da sapere che è in quel momento che vieni fottuto, quando attacchi a cincischiare. E poi c’erano i ragazzi fuori. Un urlo qualsiasi e invece di correre verso la libertà sarebbe stata fatta a pezzi. Prima violentata chiaramente, ma poi fatta a pezzi o venduta.
Si fermò davanti allo sportello con il tastierino numerico. L’idiota l’aveva fatta cambiare due mesi prima. Il negro ciccione l’aveva convinto che non era particolarmente sicuro tenere una cassaforte meccanica, chiunque avrebbe potuto forarla e aprirla. Da qualche parte una reminescenza della sua vita precedente le ricordò che aveva appena fatto un pensiero razzista. Fanculo, le rispose la nuova se stessa, il bastardo mi ha picchiata, si fotta.
Lei era lì il giorno in cui l’avevano installata, era sempre lì, non poteva stare quasi da nessun altra parte nella casa. L’aveva osservato pigiare i tasti mentre inseriva il codice della cassaforte, sibilandolo tra i denti. Più facile di così. L’aveva ripetuto nella sua testa costantemente. Durante le giornate vuote, durante le nottate in cui la violentava, durante quelle in cui lui collassava sul letto per le droghe e l’alcol lasciandola a ripulire il vomito, mentre osservava il via vai delle guardie in giardino, mentre faceva finta di essere una donna stupida e inutile.
Due mesi aggiunti a tutti quelli precedenti quanto facevano? Non lo sapeva. Aveva perso il conto nelle settimane in cui era troppo intontita dalle botte e dal dolore. Quel dolore. Non sapeva se quello se ne sarebbe mai andato. I lividi, le fratture, tutto sarebbe passato. Ma quello?

Non ci pensare ora. Pensaci dopo. Ora vai avanti con il piano. Respira.

Premette i tasti meccanicamente come se l’avesse fatto centinaia di volte nella realtà e non solo nella sua testa. Il meccanismo scattò. La sua testa riprese a funzionare. Dentro c’era esattamente quel che sapeva ci sarebbe stato: soldi e documenti. Non i suoi veri ovviamente, quando l’aveva rapita non si era di certo preso la briga di portarseli dietro. Aveva buttato la sua borsa e glie ne aveva fatti fare direttamente altri. Anzi, erano doppi: quelli con il nome con cui la conoscevano tutti i suoi uomini e che portava dietro quando uscivano di casa e quelli con cui l’aveva fatta entrare nel paese.
Un mese prima gli erano arrivati quelli nuovi, quelli con cui si sarebbero spostati nel giro di qualche settimana. Cambiava nazione e continente ogni tot mesi per evitare di essere trovato da chicchessia. Furbo. Non abbastanza.
La routine della casa era fissa, sapeva quando avrebbe potuto mettere in atto il tutto, le mancava solo un’arma.
Due giorni prima, era arrivata una grossa spedizione di armi.
Erano da testare, mandate da un venditore che cercava di ingraziarselo e scalzare vecchi fornitori. Ne aveva mandate tantissime. I ragazzi si erano divertiti a provarle tutte nel giardino dietro casa, sparando a bersagli fissi e animali vari. Un fottuto torneo in cui lo stronzo l’aveva costretta a fare da madrina, consegnando premi simbolici al vincitore e aggirandosi in bikini e tacchi. Le casse aperte erano sparse ovunque in casa. Prendere una pistola, un silenziatore e qualche caricatore dal mucchio in un momento in cui non c’era nessuno in soggiorno era stato facile. La lasciava girare da sola per casa, tanto c’erano le guardie in giardino e avevano il permesso di picchiarla. Scoparla no, picchiarla sì. Ma non sulla faccia.

Stupido stronzo.

Spostò i soldi e prese la busta gialla che gli aveva visto in mano e di cui si era vantato con lei prima di ordinarle di aprire le gambe. Dentro c’erano due passaporti argentini. Prese il suo e rimise dentro l’altro. Ci ripensò, prese la busta e la lanciò nello scivolo dell’immondizia che andava direttamente all’inceneritore nel seminterrato. Quella notte stessa sarebbe stato tutto incenerito.
Dall’armadio prese una borsa e ci mise dentro diecimila dollari australiani lasciando gli altri, chiudendo poi la cassaforte. Andò in bagno a lavarsi prima di vestirsi e attendere.
Il piano era semplice.
Uccidi lo stronzo. Apri la cassaforte e prendi i documenti nuovi e soldi sufficienti a viaggiare. Lascia il resto così non si penseranno che hai i mezzi per scappare. Aspetta che i ragazzi se ne vadano e che le guardie di giorno vadano a dormire. Uccidili nel sonno. Nasconditi la pistola addosso e fatti vedere dal guardiano notturno mentre scappi. Uccidilo mentre ti si avvicina con la stessa condiscendenza con cui ti si è avvicinato le ultime volte. Uccidi l’altro di soppiatto. Prendi una delle due auto e segui le indicazioni per la prima città più grande e vicina che hai. Cerca la stazione dei bus. Vai all’aeroporto di Sidney. Torna a casa.
Con un po’ di fortuna i ragazzi non si sarebbero presentati prima delle nove, avrebbero trovato tutti morti e sarebbero andati in panico. Sarebbe potuta passare una buona ora prima che qualcuno avesse notato che le non c’era. A quel punto avrebbero controllato le auto, cercato sul GPS dov’era quella mancante (non sapeva come disabilitarlo) e l’avrebbero raggiunta, mentre qualcuno avrebbe chiamato il ciccione.
A quel punto però, anche nelle prospettive peggiori, lei sarebbe già stata su un bus per Sidney.
Aveva pensato di andare all’ambasciata chiaramente, ma aveva deciso che non sarebbe rimasta invischiata in un’inchiesta per l’omicidio di quello stronzo e tutti gli altri bastardi. Sarebbe tornata direttamente a casa. Aveva pagato abbastanza per crimini che aveva solo iniziato a compiere. Inoltre nessuno di loro sapeva il suo vero nome, nemmeno lui. Una volta salita sull’aereo non avrebbero mai saputo dove cercarla.
L’aveva rapita un giorno che stava tornando dal medico. Era malata, ed era l’unico motivo per cui era fuori di casa a quell’ora invece che al lavoro. Se non fosse stata malata le cose non gli sarebbero andate così lisce. L’aveva lanciata dentro un’auto e da quel momento in poi lei era stata Lena.
Mentre era sul fondo dell’auto, sull’aereo privato che li stava portando in australia, mentre la picchiava e la violentava la prima volta, l’aveva chiamata sempre Lena.
Chi fosse quella Lena lei l’avrebbe capito solo qualche settimana dopo. Non che qualcuno si fosse degnato di darle una spiegazione, aveva solo sentito il negro parlare al telefono con qualcuno in cucina. “Speriamo che questa duri un po’. No, non so dove l’ha presa, non l’ha detto. Sai com’è fatto. L’aveva con sé all’aeroporto. No, i documenti continua a farseli fare da solo, non so da chi. Sai che gli piace avere segreti.”
Aveva provato a chiedergli aiuto ovviamente, a impietosirlo, solo uno dei tanti errori che aveva fatto in quei primi tempi. Il negro le aveva tirato un manrovescio che l’aveva lanciata dall’altro lato della stanza. Le aveva detto: “Ora sei Lena, accettalo. Hai una bella casa, cibo e gioielli. Fai la brava e andrà tutto bene.”
Sempre origliando, l’aveva sentito dire a uno dei ragazzi di non passare droga a questa, così potevano evitare l’ennesimo suicidio e tutti i guai relativi.
La prima notte che aveva provato a scappare il guardiano notturno le aveva massacrato le gambe dicendole: “Così non lo farai più. Non lo fate più quando vi massacro bene e io ne guadagno in tranquillità”.
Aveva messo insieme il resto nei momenti ubriachi dello stronzo, quando le chiedeva se si ricordava il loro matrimonio in Messico e la luna di miele dove avevano sniffato così tanto che Xavier aveva dovuto chiamare l’ambulanza. O che diavolo le fosse passato in testa quando quel bamboccio a una festa aveva provato a rapirla e aveva dovuto farlo a pezzi e poi era stato costretto a chiedere scusa al suo capo. O se fosse ancora amica della moglie di non-si-sa-chi, sogghignando. La moglie di non-si-sa-chi aveva capito chi era poi, una bastarda conosciuta una festa che era andata subito a spifferare al marito quando le aveva chiesto aiuto per fuggire. Quella notte era stata brutta.
La storia alla fine era semplice, quasi banale. Lena, quella vera, muore anni fa di overdose poco dopo il matrimonio (e dubitava fortemente che fosse stato accidentale). Lo stronzo va in paranoia e comincia a sostituirla con donne che le assomigliano, obbligandole a essere Lena. Queste chiaramente impazziscono e dopo un po’ muoiono suicide e a lui tocca sostituirle. Lei era l’ultima, ma non si era suicidata.
Finì di vestirsi e attese che i bastardi là fuori la smettessero di fare baldoria a spese del loro capo.
Lo stronzo, non più molto giovane tra l’altro, aveva diversi difetti. Era un drogato, un alcolizzato, perdeva le staffe molto facilmente (il terreno accanto alla casa custodiva i cadaveri di cinque tirapiedi, di cui uno aveva fatto l’errore di far cadere un soprammobile) ma, soprattutto, non si fidava dei suoi, mai. Anche il negro ciccione se voleva sapere più cose sui meeting doveva andare a chiedere a chi lo aveva accompagnato, ed era il suo vice o qualcosa del genere. Un paio di volte aveva chiesto cose anche lei. Gli aveva mentito per il solo gusto di farlo. Ma quello che lo aveva ucciso era la sua misoginia.
Nel momento stesso in cui aveva capito che mai lui l’avrebbe considerata una minaccia aveva anche trovato l’arma con cui farlo fuori. Era convinto che le donne fossero tutte stupide, deboli, naturalmente assoggettate al maschio e troppo rincretinite per fare due più due, anche quando i conti glie li faceva qualcun altro. Glie l’aveva ripetuto un sacco di volte mentre la riempiva di botte per aver cercato stupidamente di tenerlo lontano. Poteva anche aver trovato solo donne che avevano confermato questo concetto nella sua testa, ma sfidava chiunque a essere rapito, brutalmente stuprato, picchiato e drogato ogni giorno e rimanere un essere umano funzionale. La sua fortuna doveva essere stata il nuovo divieto di fornire droga alle Lena: in troppe dovevano essersi uccise così.
Senza nessuna via d’uscita chimica era stata costretta a trovarne una reale e quindi aveva cominciato a recitare la parte. Indossava costantemente un’espressione mite e spaventata. Parlava solo quando interpellata e poco. Era cortese e ubbidiva senza storie. Man mano che passavano le settimane sia lui che gli gli altri cominciarono a considerarla così poco da confonderla con il resto del mobilio. Le notti però erano state più difficili. Smettere di resistere. Provare a far finta di provare piacere. Non vomitare. Non piangere. Non urlare. Lo schifo. Il dolore.

Non pensarci. Non pensare. Passerà tutto.

Aveva funzionato. L’ultimo mese lo stronzo non si era nemmeno curato di cacciarla via dal soggiorno quando doveva parlare di affari con i ragazzi. Se mai le forze dell’ordine l’avessero presa avrebbe quanto meno avuto qualcosa con cui scambiare la sua libertà.
Molte volte avrebbe voluto gettare la spugna. Gettarsi contro una delle guardie e costringerla a sparargli. Tagliarsi le vene. Perdersi in qualche meandro della sua mente. Non ci era mai riuscita, il dolore la manteneva vigile e rabbiosa. Quel trucco di seppellirli nella pazzia le sfuggiva ancora.
Silenzio.
Tese le orecchie. Macchine che partivano. Il cancello che si chiudeva. Era quasi ora.
Uscì sul balcone e sbirciò verso il soggiorno. Gary stava facendo il giro del salotto per spegnere le luci e i mozziconi ancora accesi. Avrebbe aspettato un’ora. Tornò nella stanza e spense la luce per non insospettire il guardiano notturno. Non erano mai accese a quell’ora.
Per un attimo fantasticò di sparargli alle caviglie e alle ginocchia, prima di piantargli un proiettile in bocca.

No. Attieniti al piano. Niente fronzoli. Niente distrazioni. Ammazzali, prendi l’auto e vai.

Giusto. È così che si muore, con le distrazioni.
Cercò di calmarsi.
Se anche solo uno dei ragazzi fosse stato sveglio sarebbe stato un problema.
Non ci pensare. Respira. Andrà tutto bene. Tieni la testa lucida. Ripeti il piano.

Scendi le scale. Controlla che non ci siano luci accese sotto le porte. Apri piano le porte. Pianta un proiettile in testa a tutti. Esci. Fatti avvicinare dal primo stronzo fuori. Sparagli in testa. Cerca il secondo. Sparagli in testa. Prendi l’auto e vai.
Ripeti.

L’ora passò. L’ansia cercò di prendere il sopravvento.

Non cincischiare. Ora o mai più.

Aprì la porta, attraversò il soggiorno e scese le scale.
Tutto era buio. Due di loro stavano russando sonoramente. Il sonno dei giusti era un concetto sopravvalutato.
Appoggiò la borsa per terra. Aprì la prima porta.
Quello fu il momento in cui ringraziò gli anglofoni per il loro non credere negli scuri alle finestre. Con le luci del giardino era come se fosse praticamente giorno lì dentro.
Punta. Spara due volte.
Punta. Spara due volte.
Prossima stanza.
Punta. Spara due volte.
Punta. spara due volte.
Prossima stanza. L’ultimo. Un’ombra davanti a lei.
“Checcazz..!”
Punta. Spara due volte.
Si muove ancora.
Altre due volte.

L’avevano sottovalutata. Quei bastardi l’avevano sottovalutata.
Cambia il caricatore ed esci.

Lo stronzo aveva regole rigide su come lei dovesse vivere. I vestiti che doveva indossare. La biancheria. I costumi. Le scarpe. L’acconciatura. Due tizi venivano ogni mese a portare vestiti e scarpe nuove e tagliarle i capelli. Ne aveva fatto venire uno per insegnarle come truccarsi. Doveva essere perfetta la sua Lena, specie quando la portava alle feste in cui doveva fare il perfetto manichino sorridente.
Anche i programmi tv erano selezionati: solo soap e commedie romantiche a lieto fine.
Le riviste. Tutte le riviste femminili di moda e pettegolezzi del pianeta.
Niente libri. Niente giornali.
Riusciva a sentire il notiziario ogni tanto quando lui era di buon umore e non la confinava in camera ad aspettare il momento in cui sarebbe stato pronto di nuovo a scoparla.
Lo stronzo. Aveva avuto tanto tempo nella sua testa a pianificare il tutto, mentre si annoiava davanti sul divano.
Ora toccava ai guardiani. Il bastardo alla guardiola sarebbe stato il primo.
Per fortuna allo stronzo non piacevano i cani. Sporcano. Abbaiano. Meglio più uomini e meno cani. Nonostante ciò c’erano solo due guardiano la notte, uno alla guardiola e uno che percorreva annoiato il giardino. Il giardino aveva una recinzione molto alta e senza appigli, circondato da telecamere dentro e fuori. Era così che l’avevano beccata la prima volta. E le successive due. Non aveva visto le telecamere. Altro errore. Uno dei tanti. Ma aveva smesso di fare errori.

Avrebbe dovuto lasciarla stare.

Uscì in giardino. Lasciò la borsa di fianco a un cespuglio e controllò dove fosse il secondo guardiano. Andò verso il cancello facendo la scena della stupida che va a implorare per l’ennesima volta di essere lasciata andare.
Lo scemo non solo apre la guardiola con la faccia scazzata, ma le da anche le spalle per prendere il manganello. Due colpi.
Costeggia la casa. L’altro idiota sta pisciando nello stagno. Gli arriva da dietro. Due colpi.
Torna a prendere la borsa e scende in garage.
Gli australiani hanno la guida a sinistra ma se la caverà. A quell’ora della notte non dovrebbe trovare traffico a metterla in difficoltà.
Decide di prendere una delle auto che i ragazzi usano per le commissioni. È un’utilitaria semplice, nessuno la noterà una volta parcheggiata.
Apre il garage. Apre il cancello. È fuori. È libera.
Si accorge che le tremano le mani mentre cerca di costringersi a tenere la sinistra sulla carreggiata.

Va tutto bene. Sei libera. Lui è morto. È morto. Lo stronzo è morto. Sei stata brava. Respira. Respira. Respira.

Un cartello indica la direzione per Melbourne. Imbocca l’autostrada e la segue stando attenta a trovarne un’altro che indichi un’uscita promettente. Non ha preso cellulari con sè. Non sa quanto il negro sia paranoico con la sicurezza, potrebbe avere l’accesso ai telefoni di tutti. Meglio lasciarli stare. Meglio lasciare poche tracce.
La voce della vecchia sé stessa torna a farsi sentire.
Sai, stiamo tornando nel mondo reale, dovresti tornare a parlare più civilmente.

Fanculo. Mi ha picchiata. Sapeva cosa stava succedendo e mi ha detto di stare buona. Negro di merda è e rimane. Se fosse stato in casa avrei ucciso anche lui. Stronzo di merda.

La voce tace, ma per quanto? Deve salire sul bus. Deve prendere l’aereo.
Musica. È da un sacco che non ascolta musica. Accende l’autoradio. È I want to break free dei Queen.

Non piangere. Respira. Non è finita. Non piangere. Sei stata brava. Va tutto bene. Va tutto bene. È morto. Respira.

Più tardi, mentre le indicazioni la portavano alla stazione, mentre saliva sul primo bus in partenza per l’aeroporto, mentre comprava un biglietto sola andata per casa, mentre passava i controlli con un documento falso che non aveva né il nome di Lena né il suo, mentre sedeva sull’aereo, mentre decollava, mentre piangeva in bagno e la hostess bussava alla porta, gli uomini dello stronzo sarebbero arrivati a casa.
Avrebbero trovato i cadaveri. Sarebbero andati in panico. Non avrebbero trovato il suo. Avrebbero contato le auto. Avrebbero cercato e raggiunto la sua con dentro la pistola. Avrebbero cominciato a battere i motel. Xavier avrebbe raggiunto la casa e aperto la cassaforte, controllato i soldi e i documenti. Avrebbe fatto un paio di telefonate e poi, di fronte agli uomini scioccati, avrebbe sentenziato: “Beh, se l’è cercata”.

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