Santa Cecilia

Non aveva nevicato.
L’unica cosa in grado di rendere quel posto meno lugubre era una bella nevicata, ma probabilmente anche la neve pensava fosse uno spreco di tempo arrivare fin lassù. Aveva sempre pensato che la definizione “posto dimenticato da Dio” non fosse abbastanza esatta. Probabilmente Dio non sospettava nemmeno della sua esistenza.
Era in montagna, davanti al ristorante di un albergo che per la zona era sicuramente considerato di lusso. Si sentiva allegra e partecipe, anche se sapeva perfettamente di non essere parte della festa, ma degli spettatori.
Andò dentro all’edificio assieme a tutti gli altri. Erano arrivati in macchina, tre-quattro per vettura, gli strumenti stipati nei bauli e ora tirati fuori. Non era la prima volta che partecipava alla festa, sapeva quindi che avrebbe dovuto suonare ancora. L’ansia l’assalì man mano che si inoltravano verso la sala. Sapeva che se non avesse scelto il posto adatto, avrebbe potuto passare una giornata particolarmente noiosa. Si sforzò quindi di individuare le persone giuste, o per lo meno quelle con qui riusciva a parlare. Le prime volte finiva regolarmente con il gruppo anziani. Simpatici, per carità, ma le risate del tavolo di fronte l’avevano sempre attratta, instillandole curiosità e insofferenza a ogni minuto.
Adocchiò un paio di coetanei e tentando di apparire abbastanza disinvolta li avvicinò. Sapeva che anche loro stavano facendo la stessa cosa: vedere dove si sarebbero seduti gli altri. Per fortuna gli altri arrivarono e il suo essersi messa preventivamente vicino al tavolo giusto fece sì che non rimanesse senza sedia. Non era al centro del clan, ovvio, tanti e compatti com’erano era stata fortunata a essere ai lati.
Si sedette e aspettò che il pranzo iniziasse tra la confusione e gli scambi di posto.
Il rito della festa prevedeva dei discorsi. I discorsi erano fatti dal presidente. La tradizione imponeva che mentre il presidente cominciava, il loro tavolo facesse più plauso possibile interrompendolo tre o quattro volte, costringendolo a riattaccare. Non aveva ancora capito se lo trovava stupido o divertente. Ad ogni modo, essendo nel tavolo promotore della caciara, partecipò entusiasticamente senza sentirsi un’idiota.
Santa Cecilia era la festa della banda. In realtà era la feste di tutte le bande musicali. Era la loro patrona o una cosa del genere. Perciò, il 22 novembre si faceva un concerto e la domenica immediatamente successiva una sfilata per le vie cittadine, la messa e il pranzo. Le prime volte la presenza della messa proprio non la capiva, ma crescendo aveva capito che era un interrogativo stupido. Quando mai una ricorrenza non viene celebrata da una messa da quelle parti?
La festa della loro banda era particolarmente ritualizzata. Non sapeva né quando né perché, ma un giorno alcuni del gruppo ‘giovane’ avevano preso il controllo della festa e l’avevano scandita secondo un programma di giochi e scherzi, tutti imperniati su quotidiane prese in giro tra di loro. In realtà era tutto piuttosto divertente, sebbene ogni tanto un po’ maligno.
Era l’ora degli antipasti, il primo schetch non sarebbe arrivato prima che gli organizzatori non si fossero riempiti la pancia a sufficienza. Partecipò più uditivamente che attivamente alle conversazioni, ma con abbastanza esperienza alle spalle da sapere come intervenire ogni tanto.
Le prime volte non si azzardava nemmeno ad aprire bocca.
Ricordava ancora quando era riuscita a sedersi a quel tavolo glissando il suo maestro di strumento e quindi il tavolo anziani. Tutto era diverso. Si faceva casino per ogni cosa, le conversazioni erano tante e animate e a lei girava la testa a furia di volerle seguire tutte. Piccola e taciturna com’era, era per lo più ignorata, ma sospettava che il suo recente passaggio da adolescente smilza a ragazza un po’ più matura fosse il principale responsabile della metà delle frasi che le venivano rivolte. Non erano tante, ma comunque c’erano. D’altronde nessuno di loro aveva mai fatto mistero di essere fondamentalmente un maiale. Quando uno di loro era partito per il militare, alla festa il regalo consisteva per lo più i pacchi di preservativi e confezioni formato famiglia di lubrificante (anche la maggior parte delle battute durante quelle feste erano a sfondo sessuale). Il tutto fatto allegramente di fronte alla famiglia di lui.
A Santa Cecilia si potevano portare i parenti: anche i suoi genitori avevano partecipato, ma solo alla prima. Di solito le famiglie non stavano con loro, a meno che non fossero gli anziani o alcuni membri seduti al loro tavolo, chiaramente non del clan. Per questo, nonostante fossero solo trentacinque, la loro sala era sempre piena: tra suonatori, parenti e autorità varie, alla fine i non bandisti risultavano molti più dei componenti della banda stessa, rendendo la festa un vero e proprio evento sociale.
Adocchiò la ragazza entrata l’anno prima, non di molto più piccola di lei e completamente infatuata del clan. Aveva una gran fame di integrazione, e nel tentativo di ingraziarseli il più velocemente possibile se ne andava in giro con maglie molto scollate e atteggiamenti da groupie. Anche adesso la camicia della divisa era molto sbottonata e annodata in vita. Non per niente era al centro del clan. Immaginò che i suoi genitori non ci fossero, l’anno prima era rimasta ben abbottonata.
A metà dei primi, il clan, o meglio il trio intorno cui ruotava il clan, si attivò. Quasi le dispiacque. Per la prima volta era riuscita a intrattenere delle conversazioni che andavano oltre il “Ciao come va?”.
Lo spettacolo partiva con la presentazione e un programma fatto più fare un po’ di battute e permettere agli showmen di fare la loro buona figura. Come da copione lei rise, fischiò e batté le mani nei momenti giusti con tutti gli altri, così che i loro anfitrioni si sedettero soddisfatti a godersi la nuova portata, non prima di aver promesso scherzi piuttosto divertenti.
La festa era chiaramente al suo culmine. Con le pance piene e le bottiglie di vino sostituite già un paio di volte, tutti chiacchieravano allegramente facendo un bel po’ di baccano. Le parve addirittura di scorgere occhiate ammiccanti. Le ignorò intuendo il pericolo di una competitizone tra ragazze e non intendeva metterne una in piedi in quel momento.
Il trio tornò al centro della scena. La seconda parte prevedeva alcuni rituali per l’accettazione di nuovi membri del clan. Senza farsi vedere guardò il ragazzo di fronte. Era entrato in banda solo un anno dopo il suo ingresso, ma nonostante questo i ragazzi entrati con lei erano stati accettati dal clan da un pezzo, lui invece era rimasto alla condizione di ‘rospo’. I rospi erano un po’ gli adepti, quelli da educare, mandare sulla giusta strada e ovviamente strapazzare un po’. Con una fitta di nostalgia le tornò in mente una ragazza che se n’era andata l’anno prima. Era l’unica che tenesse testa al trio e quindi la più bersagliata. Era lei che l’hanno prima aveva bisbigliato a un’amica che era ora di ammetterlo, poi aveva fatto l’annuncio che se ne andava. Pur rimanendoci male, sapeva com’era sempre stata trattata e aveva capito fin troppo bene. Il resto di quella serata il trio lo aveva passato con un bel po’ di espressioni colpevoli sul viso, ma niente l’aveva fatta tornare sulle sue decisioni.
Si distolse dai suoi pensieri e osservò il trio suonarsela e cantarsela chiamando in gioco altri del clan. Osservò il tavolo anziani. Chiamarlo il tavolo anziani non era carino, ma c’era effettivamente un buon distacco generazionale nell’età media dei due tavoli e tutto sommato loro accettavano l’etichetta. Rimandò alla memoria le prime serata in banda, quando a rivolgerle la parola erano solo alcuni di loro, quelli che si erano presi la briga di notare la sua presenza. Sorrise, loro forse le sarebbero mancati.
Le portate continuarono a essere servite mentre venivano inscenate parodie del Costanzo Show e C’è posta per te. Il ragazzo di fronte a lei venne coinvolto e quindi finalmente tolto dalla condizione di rospo. Praticamente era l’ultimo. Aveva sempre avuto la sensazione che fosse un clan esclusivamente maschile e non aveva cambiato idea quando li aveva visti interagire con la compagna più giovane. Veniva notata, è vero, ma non c’era complicità nel modo con cui le rivolgevano la parola o scherzavano con lei. Non che fosse possibile, spesso i suoi atteggiamenti erano talmente espliciti che se non si fossero tirati un po’ indietro, avrebbero rischiato di essere denunciati per stupro di minore.
Il trio concluse tra gli applausi generali e andò a godersi l’ultima portata. In quella pausa li osservò tutti. Costantemente in soggezione, non aveva mai fatto realmente caso a come uno dei ragazzi più giovani pur essendo integrato, partecipasse meno di un altro o di come l’aspetto esteriore del trio cominciasse a stonare coi suoi comportamenti. Non aveva notato nemmeno che alcuni si sforzavano di mantenere espressioni neutre nei loro confronti, mentre qualcuno scostava velocemente lo sguardo e altri li guardavano proprio rassegnati o con rimprovero evidente. Non aveva mai visto in effetti come questi formassero un clan a parte. Per un attimo si rivide a quindici anni, quando si chiedeva perché non era in grado di entrare in contatto con loro e la cosa si ripeteva di anno in anno, quel giorno compreso. Non si sentiva integrata, continuava a essere una spettatrice e la netta impressione era che in ogni caso non sarebbe potuto essere diversamente.
Il presidente si era alzato e aveva annunciato la band. Il loro maestro prese posto davanti al palco con gli strumenti, assieme a un paio del clan e altri due che non conosceva. La bravura del maestro con il sax era leggendaria nella banda e tutti lo accolsero con entusiasmo.
Mentre i pezzi rock e valzer si diffondevano nella sala, si diede il via all’ultimo rituale della festa: la lotteria. Gli anni prima l’aveva scampata, sebbene non sapesse se per pietà o indifferenza. Quell’anno però le rivolsero chiaramente la domanda se avesse venduto i biglietti o meno. Toccava ai più giovani, quindi a tutti quelli che avevano pressappoco la sua età. Prese uno dei blocchetti da una delle ragazze grandi e cominciò a fare il giro dei tavoli. Meno agitata di quel che pensava, vendette quasi tutti i biglietti ai tavoli degli anziani, parenti e ospiti, ma anche il clan ne prese parecchi. Alla fine fece fuori due blocchetti e tornò al suo posto più compiaciuta di sé di quanto volesse mostrare. Il tempo del dolce e le matrici dei biglietti erano state tutte strappate e messe in una boccia, pronte per l’estrazione.
Nelle comunità montane fare le lotterie non era difficile. Bastava girare un po’ per i negozi e chiedere chi volesse donare qualcosa. Considerando quanta roba racimolavano ogni anno non dovevano essere in molti a dire di no. C’erano sempre cesti di frutta o dolci, vini, qualche accessorio elettronico e carabattole domestiche. Qualcuna era di valore, molte non erano niente, ma facevano la loro figura. Durante l’estrazione si continuava a chiacchierare, a fare battute sulla madrina della banda che misteriosamente, come ogni anno, vinceva sempre più di tutti e a uno del consiglio, che pur avendo comprato praticamente mezzo blocchetto, arrivava sempre a un soffio dal premio senza mai vincere nulla.
Non appena l’estrazione fu finita e la band riprese a suonare, riconobbe i segni della fine. La tavolata ormai era un caos. Buchi di sedie vuote da un gruppo e l’altro, conversazioni solitarie, persone che fissavano il vuoto impegnati nella digestione. Calcolò tre quarti d’ora al massimo, poi si sarebbe fatta venire a prendere. Non era abbastanza in confidenza con nessuno di loro per poter sostenere una conversazione sui loro soliti argomenti e non si sentiva a suo agio ad aggiungersi al bar per un giro di bevute.
Mentre li osservava nell’atrio, seduti sui divanetti, fuori a fumare o al bancone a ordinare gli amari, si ricordò di nuovo che con ogni probabilità era l’ultima. Niente più ansia di avere il posto giusto, niente più disagi nell’avere conversazioni, niente lunghi momenti di silenzio ad ascoltare la lotteria mentre il clan si staccava e andava a farsi i fatti propri, niente battute scontate che, per quanto pensate, alla fine erano tutte uguali di anno in anno. L’ultima replica.
Era un miracolo se l’università le aveva lasciato l’opportunità di partecipare a questa.
Al diavolo la mezz’ora, meglio andarsene subito.
Mentre usciva per cercare campo per il cellulare, vide la ragazza buttarsi su uno del trio seduto su una poltrona, in una maniera del tutto sconveniente e decisamente ubriaca. Risero tutti sguaiatamente, lui la tirò su tra l’irato e l’ilare, ma non era sicura che l’imbarazzo che provava fosse solo suo.
Quando rientrò era ora di suonare. L’ultimo atto della festa era suonare un paio di marce nel ristorante, chiamando anche tutto lo staff dei camerieri e i direttori ad assistere. Tirò fuori il clarinetto. Lo montò velocemente controllando che il leggio fosse dalla parte giusta, saggiò l’ancia costatando che era decisamente debole, se ne infischiò a attese il segnale di partenza. Mentre suonava marce che non erano mai cambiate da quando era entrata in banda, rifletté su quanto quella festa fosse uguale e diversa alle altre. Non aveva perso il senso si disagio e nemmeno di non essere integrata, ma aveva interagito, aveva riso di più e si era sforzata di entrare a far parte del meccanismo della festa. Avrebbe potuto migliorare?
Sbirciava i ragazzi, mandava a memoria scene del trio, delle ragazze e delle feste e processioni precedenti. In sei anni che era lì, la sensazione di essere un’estranea non l’aveva mai abbandonata. Tra le barzellette sconce, gli scherzi, le battute che non capiva e i litigi, lei non aveva mai trovato posto. Le marce finirono, scoppiò l’applauso, la festa era finita.
Più tardi era seduta in macchina di fianco a suo padre. La parete di roccia della valle scorreva veloce accanto a lei, mentre la penombra lasciava intravedere le sagome spoglie degli alberi oltre lo strapiombo, dal lato opposto.
Non aveva nevicato e non l’avrebbe fatto per molto tempo. Lo squallore di quel posto sarebbe rimasto palese fino a quando la primavera pietosa non fosse tornata a ricoprire tutto con il suo verde. Ma nemmeno un bel manto sarebbe riuscito a farle dimenticare l’esistenza dello squallore preesistente. Lo avrebbe fatto un treno il giorno dopo, quando se ne sarebbe andata lasciando tutto lì, dimenticandosi che esistevano il disagio, conversazioni in cui non poteva entrare e una neve che non cadeva mai quando doveva.

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