Quando il gioco si fa duro

Affacciata alla finestra che dava sul rio, sorseggiava latte e cacao dalla tazza gialla a boccale. Si era svegliata con molta energia addosso e doveva trovare il modo di dissiparla subito. Dall’armadio aveva preso il suo abbigliamento d’ordinanza: camicia da uomo di lino di due tagli più grandi, jeans stretti, impermeabile. Si assicurò che la camicia e l’impermeabile fossero stropicciati e fuori posto come da manuale. Il tocco finale lo avrebbe dato la matita arrotolata intorno ai capelli non pettinati. Quel giorno doveva assolutamente trovare uno scoop.
Lei era una giornalista, ma non una giornalista come le tante. Era di quelle che, in un modo o nell’altro, si ficcavano sempre nei guai, più erano fatali e meglio era. Di solito venivano salvate dal detective belloccio di turno adescabile su una scena del crimine, su cui lei avrebbe dovuto rompergli le classiche uova nel paniere. Il crimine si sarebbe poi risolto grazie alla sua incoscienza e al tempestivo intervento del detective, che si prendeva tutto il merito. Ovviamente, i due dovevano finire a letto poco prima del gran finale, con sottofondo di violini.
Ecco, quella era la parte che le interessava particolarmente scoprire… e quella che non aveva mai raggiunto.
Nella realtà trovava quello che poteva essere uno scoop, lo seguiva fedelmente e al momento di inciampare nel bell’investigatore di turno si trovava davanti un carabiniere che le faceva gentilmente cenno di andare a farsi un giro.
Bella fregatura l’Italia.
Ad ogni modo, quel giorno aveva energie da spendere, quindi ci avrebbe riprovato. Si accoccolò sul davanzale della finestra con la sua tazza e aspettò che lo scoop passasse di lì.
Santa Marta a Dorsoduro era il suo quartiere e sapeva tutto di tutti: aveva solo l’imbarazzo della scelta per uno scoop.
Ecco passare il tipico gruppetto di architetti in erba, ciarliero e tirato a lucido: polo e camicia per i ragazzi, golfini pastello per le ragazze. Il regolamento universitario prevedeva la possibilità di scegliere quale capo di abbigliamento portare in nero. Classificati come fondamentalmente noiosi.
Architetti.
Architetti.
Architetto.
Altri architetti.
Ecco gli artisti.
Si riconoscevano subito: assonnati, a volte barcollanti, sguardo perso per motivi vari e per niente omologati stilisticamente. Loro sì che erano interessanti. Sapeva perfettamente che la loro facoltà era solo la facciata di una setta segreta dedita all’organizzazione di una rivoluzione mondiale, secondo canoni e ideologie tratte dai futuristi e i nuovi dadaisti, fino a incrociare per linea diretta la Hollywood degli anni Ottanta e le visioni sulla fine del mondo di Spielberg e dei fratelli Whatchowsky. La linea ideologica principale era contrastata da una neo corrente sotterranea, nel senso locativo del termine, partita dalle leve del triennio che veneravano Wharol e Toriyama e prevedevano futuri più alla anime giapponese.
Questo in linea generale.
Non esisteva un manifesto ufficiale del movimento, avrebbero dovuto mettere d’accordo troppe persone per riuscirci e le lotte interne erano faticose e deleterie, così avevano stabilito un compromesso: la Setta Principale e la Corrente Sotterranea avrebbero vissuto separatamente e in pace, con l’obbligo di condividere i festini alcolici.
Stava adocchiando due professori d’arte dediti a discutere di rituali alla ‘Codice da Vinci’, quanto la signora Mannetti entrò nel suo campo visivo. Uno scoop decisamente migliore.
La signora Manetti era un’arzilla e quieta vecchietta che passava il tempo chiedendo a tradimento a giovani e spensierati passanti di aiutarla a portare la sporta della spesa. Inspiegabilmente, questo accadeva tipo tre volte al giorno. E lei sapeva perché.
Dieci anni prima la signora aveva amabilmente ucciso suo marito.
Stufa del suo continuo lamentarsi per la minestra insipida e della sua ossessione per i telegiornali – che guardava a ogni ora – una sera aveva semplicemente afferrato la mannaia e tranciato il braccio con cui lui teneva il telecomando. Il poveretto si era agitato parecchio, non si sa se per la perdita improvvisa di un arto o per il rapido dissanguamento del suo corpo. La vecchia signora non aveva gradito l’insozzamento del suo salotto così, con un po’ di colpi ben assestai, gli aveva anche staccato la testa. Ma la signora Mannetti non era solo una carnefice senza scrupoli, era anche una pratica donna di casa. Ritenendo che gettare il corpo del marito nel canale sarebbe stato solo uno spreco di carne, lo aveva sezionato per bene e messo nel congelatore, vivendo di bistecche e trippa per mesi. Quando la riserva finì, altrettanto razionalmente stabilì che non valeva la pena sprecare la pensione al supermercato quando c’era così tanta disponibilità gratuita. Certo il comune si doveva essere stupito quando le statistiche avevano evidenziato un crollo nella presenza di barboni ed extracomunitari in città, ma evidentemente non lo aveva considerato un problema.
Osservò l’amabile vecchina accalappiare un artista ritardatario e pensò con rabbia che ancora non aveva le prove: la vecchia era troppo furba. Ma era solo questione di tempo madama. Solo questione di tempo.
Gli studenti sparirono, il rio e le calli si svuotarono, Santa Marta tornò alla sua quiete attendendo l’ora delle lezione di metà mattina e del pranzo.
Capita l’antifona decise di uscire.
Controllò l’ora e stabilì che aveva accumulato abbastanza ritardo.
Controllò il suo aspetto allo specchio: la camicia era troppo abbottonata. I bottoni delle camicie avevano degli strani poteri, a seconda di quanti se ne allacciava si poteva passare per: santarelline, maschiacci, sensuali, sfacciate. Uno in meno, il bottone dei maschiacci, per la sensualità era troppo presto. Infine gli occhiali da sole, l’ultimo elemento necessario a mistero e anonimato. Per inciso, non sapeva se era davvero un femmina attraente e misteriosa, ma l’importante era crederci.
Controllò di avere la pistola carica e funzionante nella borsa ed uscì. Da quando l’avevano aggredita tempo prima a causa di un articolo sui trascorsi del sindaco come pescatore di frodo di vongole, non usciva più senza.
Mentre si trovava sul pianerottolo ricevette una chiamata. Capo dannato, sapeva sempre quali erano i momenti meno opportuni per chiamare. Lo ignorò sapendo che se non avrebbe portato uno scoop per il pomeriggio avrebbe dovuto inventarsi una scusa terribilmente credibile. Mentre usciva rimandò a memoria il dossier dei suoi condomini per esercizio.
Terzo piano, appartamento di fronte al suo, famiglia Grillo, nessun legame accertato con quello famoso. Padre e figlio nascondono l’attività di gestione della borsa del mercato nero dietro lo studio da commercialista.
Secondo piano, appartamento Quattro, le sorelle Ciacole. Età dichiarata: settanta. Età dimostrata: non è carino dirlo. Età reale: sconosciuta. Madrine della sacra scuola del pettegolezzo, il loro fiuto per gli scandali era leggendario, così come la loro bravura a bridge. Erano le sue principali fonti di informazione ovviamente, nonché di numerose torte ipocaloriche al cioccolato.
Appartamento Tre, il signor Briscola. Ci provava da anni con entrambe le dirimpettaie e ne aveva rimediato solo una cultura enciclopedica sull’uncinetto e molti debiti, dato che a carte giocava peggio che in amore.
Primo piano, appartamento Due, il signor Giacomo Danieli, per gli amici “Jack”. L’assembramento di vuoti a perdere fuori dalla sua porta era continua fonte di discussioni alle riunioni condominiali, nonché di diverse risse. Questo finché Jack non cominciò a distribuire parte della sua riserva di alcol tra i presenti, mettendo a tacere tutte le proteste, i successivi ordini del giorno e il comune senso del pudore. La cultura che aveva acquisito in fatto di anatomia e intimo di portatori sani di mezza età, era andata ben aldilà della sua curiosità. Jack era anche il suo medico di emergenza per quando si metteva nei guai, ammesso che nel momento del bisogno l’avesse trovato abbastanza sobrio da aiutarla.
Appartamento due, sfitto.
Appartamento Uno, gatti e affini. Qualsiasi essere a quattro zampe munito di pelo, baffi, coda e apparato miagolante presente a Venezia era sicuramente passato di lì. La signora Fusette era follemente innamorata dei felini tanto quanto detestava gli uomini. Sempre che questi non facessero parte del circolo parrocchiano di Santa Marta, vestissero di nero e portassero una croce al collo. Se poi celebravano anche messa allora diventavano il suo uomo ideale. Era fonte di maledizione per tutti gli inquilini del palazzo, che non si sognavano nemmeno di disturbarla per quisquilie come l’impossibilità di riuscire a scendere le scale senza inciampare in una ciotola, semplicemente alle riunioni tiravano a sorte su chi glie le avrebbe fatte sparire quella settimana.
Pian terreno, Paolo Pantano, semplicemente detto “P”. P abitava in un piccolo monolocale cui ogni superficie era convertita in laboratorio. Gli unici spazi di cui disponeva per vivere erano un letto nascosto in un armadio a muro di fabbricazione illecita e due fornelli. Tutto il resto era ingombro da una quantità immensa di componenti elettrici e meccanici. Era il principale fornitore di tutta l’assistenza tecnica di cui palazzo e inquilini avessero bisogno, nonché delle sue attrezzature, compreso il cannone che aveva in borsa.
Uscì sul rio. Gli addetti Amiù si erano decisi a fare una sortita e stavano caricando rumorosamente il contenuto dei loro carrelli raccolto dai portoni delle case, spandendone anche l’odore ovunque nel raggio di trenta metri.
Ok, portamento standard: schiena diritta, petto in fuori nella speranza che si noti, andatura decisa, velocità media. Direzione: i magazzini della dogana.
Si voltò verso sinistra e partì.
Oltrepassò con noncuranza il barcone intento a nascondere il passaggio di bottiglie di coca cola di contrabbando dall’imbarcazione ai seminterrati del kebabbaro di fronte, a cui aveva promesso di chiudere un occhio in cambio di uno sconto a vita, e si avviò con passo deciso verso la caserma dei carabinieri. Un’ulteriore occhiata all’orologio, confermò che non era necessario allungare il tragitto, quindi andò dritta. Aggirò la caserma e sbucò davanti alla dogana marittima. In quella zona l’attività era ancora più scarsa che davanti casa sua, quindi poté avvicinarsi a uno dei magazzini in mattoni rossi affacciati sul porto e oltrepassare la recinzione in plastica arancione senza che qualcuno la notasse.
Il suo contatto le aveva detto che si sarebbero visti all’ultimo piano alle dieci precise. Erano le dieci e mezza. Aspettò ancora cinque minuti, giusto per essere sicura che non stesse arrivando dopo di lei. Non si fidava di lui. Era uno dei principali responsabili della sua necessità di girare armata: dopo due imbeccate fasulle sulla mafia dei tramezzini avrebbe dovuto capire che non era un tipo affidabile, ma il suo tentativo di venderla al monopolio dei souvenir per rimediare a dei debiti di gioco era stata davvero troppo sporca. Certo, lei li aveva fatti arrabbiare, ma lui non aveva diritto di farla cadere in trappola così. Avrebbe se non altro potuto scegliere un giorno in cui l’impermeabile era tornato dalla tintoria.
Inspiegabilmente però il dossier che le aveva mandato due giorni prima sembrava autentico. Per telefono le aveva detto che era un modo per farsi perdonare, che voleva rientrare nel giro e che quell’informazione non l’avrebbe nemmeno dovuta pagare.
Dannazione, stava dietro alla banda dei gondolieri da mesi. Era anche riuscita a fare delle foto compromettenti che era andata a sviluppare subito, non immaginando che il fotografo fosse dei loro. In mano le rimaneva solo una stupida intercettazione telefonica che non faceva nessun nome e non valeva niente, ma se l’informazione era buona avrebbe potuto vincere il pulitzer.
Trovò le scale che portavano ai tre piani superiori e cominciò a salirle silenziosamente, facendo attenzione a non urtare nessun calcinaccio.
I vecchi magazzini erano stati costruiti con mattoni rossi e grosse porte di legno, ormai rimosse. Era un complesso di tre grossi edifici rettangolari, di cui il primo occupato da degli uffici e l’ultimo da una sezione distaccata della facoltà di arte. Lei era in quello al centro in ristrutturazione. I lavori erano fermi da un po’ e l’unica modifica apportata erano le scale in cemento e i balconi esterni. Sapeva che di notte era il ritrovo preferito dei pescatori di frodo di vongole, almeno fino a quando non li aveva smascherati. Ora ci venivano solo gli studenti di arte quando volevano far festa e fuori pioveva.
Arrivò al terzo piano e si nascose dietro al muro delle scale, tirando fuori la pistola. Ricontrollò che fosse carica, si acquattò e corse dietro a una colonna. Subito cominciarono a volare i colpi.
– Arrenditi Mary, non hai scampo. –
– Dannato Jimmy, lo sapevo che mi avresti fregata di nuovo! –
Andò dietro a un cumulo di mattoni e cominciarono a sfidarsi.
– Non vogliamo farti del male, Bick vuole solo parlarti! –
Dannato, voleva darla in pasto agli industriali! Ma col cavolo che gli avrebbe detto a chi aveva dato il microfilm!
– Ho solo questo da dirgli! –
Sparò una raffica contro i loro mattoni.
Erano in stallo. Entrambi con una buona copertura, non sarebbero andati da nessuna parte fino a quando uno di loro non avrebbe finito i colpi. Mary controllò la borsa, aveva riserve in quantità, ma non dubitava che fossero forniti anche loro. Decise che era ora di rompere lo stallo. Dopo un paio di colpi di copertura uscì di corsa dalla porta dietro di lei e cominciò a correre sui balconi. Era pericoloso, perché non avevano le balaustre, ma erano larghi e non soffriva di vertigini. Sapeva che uno di loro avrebbe provato a precederla mentre l’altro lo seguiva, ma lei aveva un piano. Conosceva un incavo nel muro poco più avanti che avrebbe un giorno ospitato una centralina elettrica, ma ora era vuoto. Ci si infilò velocemente e attese. Dei passi frettolosi le diedero ragione. Come le passò davanti, sparò.
– Preso! –
L’avversario cadde convulsamente a terra. Lo oltrepassò velocemente alla ricerca di Jimmy.
Rotolò dentro la stanza dietro alla colonna di prima, ma era vuota. Senza perdersi d’animo uscì e andò nella prossima. Vuota.
Ne rimaneva solo una da controllare. Si acquattò di fianco allo stipite, portò la pistola al petto, si tuffò dentro alla stanza e sparò. Contemporaneamente cadde a terra colpita. Un liquido scuro si stava diffondendo dal suo fianco. Tamponando, si tirò su per vedere il suo avversario. Jimmy era terra, la faccia una massa informe di un solo colore. Se l’era cercata.
Mary cominciò a controllare i danni mentre Jimmy si alzava di scatto portandosi una mano al viso.
– Dannazione Mary! Non in faccia! –
Mary si lasciò cadere accanto a lui, che tentava di ripulirsi la faccia dalla vernice blu.
– Scusa. –
– Dov’è Mike? –
– Fuori, l’ho preso al collo. –
Prese dalla borsa una confezione di salviette disinfettanti all’alcol e la porse al ragazzo.
– Miri troppo alto, te l’ho detto. –
– E tu troppo a lato, mi hai preso solo di striscio. –
– Però ti ho preso. –
– Prima io. –
– No, io! –
– E smettetela. –
Mike apparve dalla porta con passo strascicato e si accaparrò una salvietta.
– Mary miri troppo alto, mi hai preso al collo. –
– Lo so-ooo. –
Passarono i successivi minuti a levarsi le tracce della vernice e togliersi le camicie, che diedero a Mary, dopo di che uscirono dal magazzino.
– Porti a P la mia pistola? Oggi si è inceppata. –
– Non è la pistola che spara male, sei tu che non sei capace. –
– E piantala. –
Appena fuori dal magazzino i due ragazzi nascosero le pistole da paintball negli zaini da scuola che avevano lasciato al pianterreno e recuperarono le magliette.
– Abbiamo altri giorni di festa settimana prossima? –
I ragazzi negarono con il capo.
– Non ancora. –
– Allora domenica. –
– Ok, ma al pomeriggio. Mia madre si insospettisce se mi alzo prima di mezzogiorno. –
– Che bugiardo, sei tu che vuoi dormire fino a tardi. –
– E piantala. –
– Comunque ho vinto io e quindi tocca a me scegliere. –
– Ma se ti ho colpito prima io! –
– Ci siamo colpiti assieme, ma solo io ho preso un punto vitale, quindi tocca a me. –
I due ragazzini si guardarono e scrollarono le spalle: era inutile discutere con Maria.
– Mike cos’abbiamo già fatto? –
Michele tirò fuori dallo zaino un taccuino e una matita.
– Dunque… i contrabbandieri, poi i partigiani, settimana scorsa i cowboy e oggi… giornalisti d’assalto. –
Tirò una riga.
– Sai se Steve viene? –
– Sì se non si fa di nuovo mettere in punizione. –
– Allora la prossima volta facciamo 007, voi fate i cattivi. –
– E che cosa fa Steve? –
– L’agente segreto alleato. –
Giacomo diede una gomitata a Michele sogghignando.
– Non ti pare un po’ scarna come bond girl? –
Maria tirò fuori la pistola e la puntò contro di lui.
– Un’altra parola Jimmy e finisci in fondo al canale. –
– Ehi! Calma con quella! Mia madre mi uccide se torno a casa con la maglia piena di vernice! –
In quel momento il cellulare squillò.
– Il capo? –
Mary sospirò.
– Il capo. Ci sentiamo on line stasera per iniziare il gioco. –
– Ok, ciao. –
– Ciao. –
Maria trasse un respiro profondo e rispose.
– Ciao mamma… No, non sto giocando… Sì, dalla nonna… No… No. Non lo so dov’è Mirko. Ha dieci anni, non devo mica stargli sempre dietro! Ok… Ok! Arrivo. –
Maria sospirò. I tredici anni erano una fregatura.
Mise tutto dentro la borsa e tornò velocemente a casa. P l’aspettava per la consegna dell’attrezzatura e Jack per le riparazioni danni. Mike e Jimmy non sapevano che mirava apposta alto per far abbassare le tariffe di Jack, meno roba aveva da lavare, meno torta delle sorelle Ciacole gli doveva dare. Ultimamente poi aveva alzato i prezzi.
Mentre tornava a casa incrociò la signora Mannetti con le informazioni per il nemico. Forse Bond poteva fare qualcosa.

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