La Bussola

Toc toc.
Bussò leggermente a una porta color mogano scuro e opaco, il cui colore e aspetto non riescono a dare la minima parvenza di una porta degna di questo nome. Il suono che il legno produce rimbomba e traballa, tipico di una tavola di compensato spessa non più di mezzo centimetro e nemmeno troppo salda sui cardini. Un foglio di carta stampata avvisa il pubblico che verrà ricevuto solo negli orari sotto indicati: chissà che fanno nelle restanti quattro ore lavorative. La porta è infissa in uno stipite dello stesso colore ed è consunto, come la piccola sala d’attesa con i muri beige, di cui si indovina il colore solo perché il nostro sistema percettivo ha ormai imparato a riconoscerlo. L’ambiente è un piccolo corridoio con altre porte squallide e consumate che vi si affacciano. Le sedie sono state incastrate alla meglio ai lati delle porte e sovrastate da manifesti sgargianti che chiedono fiducia e promettono speranza. Ormai sono opache dall’uso persino loro; solo qualche manifesto mostra lucido orgoglio per i suoi colori ancora luminosi di stampa, mortificando i più vecchi che non si sono nemmeno sprecati di levare, ma solo di coprire. L’ambiente è pieno per metà di persone in attesa, annoiate e con i cappotti slacciati, sbuffanti e rassegnati, hanno lo sguardo di chi farebbe volentieri a meno della magagna ma che proprio non ha potuto evitare di dover venire fin lì.
La porta viene aperta di malagrazia, strappando un grugnito alla serratura il cui lamento però passa inosservato. I cardini non sembrano cogliere l’appello, forse sono satolli di olio.
– Si? –
Un’impiegata sbuca fuori dall’uscio come se fosse parte dello stesso, tiene la mano sulla maniglia e mi impedisce la visuale all’interno. Ha capelli ricci e crespi, occhiali spessi e squadrati, orecchini pendenti, trucco di circostanza e l’espressione annoiata e allo stesso tempo indifferente tipica degli impiegati, che non dice nulla e allo stesso tempo ti fa capire che non vede l’ora di liberarsi di te in tempo rercord, neanche fossi portatrice di chissà quale malattia infettiva.
– Salve, dovrei fare una denuncia di smarrimento è richiesta di sostituzione se è possibile. –
I muscoli facciali non si muovono, ma io so che sta ripassando mentalmente tutti gli svicolamenti possibili con cui rimandare o spedirmi da un altro collega, poi si ricorda che il mio caso compete proprio al suo ufficio, si rassegna e si fa di lato.
– Prego. –
La sua voce non mostra il minimo segno di quel ragionamento, ma mi ha tenuto sulla porta un secondo di troppo per non averlo fatto. Entro e richiudo la porta dietro di me, lanciando uno sguardo vittorioso a una vecchietta che mi guarda sovrappensiero. Chissà a quale ufficio deve andare.
L’impiegata scivola dietro ad una delle due scrivanie anonime, nel piccolo ufficio anonimo, pieno di cose essenziali e anonime, su scaffali con raccoglitori altrettantoanonimi. La ditta deve essere L’Anonimi S.p.A.; persino il calendario è anonimo, con macchie di colore smorte anonime e caratteri standard anonimi. Guardo bene: graphic by Anonimi&Co.
Mi fa cenno di accomodarmi sulla sedia di plastica anonima, davanti alla scrivania in metallo e truciolato impiallicciato sgombra con portamatite e computer anonimi. Non c’è un oggetto personale nemmeno a pagarlo, persino la matricola dello schermo anonimo pare far parte integrante dell’anonimato; nemmeno le sigle dell’MI6 arrivano a tanto.
Mi siedo e appoggio la borsa in terra, sul tipico pavimento a piastrelle anonimo, quello che sembra ottenuto da tanti cubi di sassi conglometrati assieme e poi tagliati, così non si vede quando il pavimento è sporco e nemmeno dove finisce il tappo della penna che ti è caduto. L’aria è asciutta e calda, senza alcun odore in particolare, forse gli impiegati usano deodoranti anonimi senza profumo. In effetti anche la donna è una perfetta impiegata anonima, con vestiti scuri e ben abbinati, collana poco vistosa in linea con gli orecchini, fisico normale senza qualità particolari. Forse anche gli impiegati escono dall’Anonimi&Co.
Cerco di mascherare la mia delusione, uno si aspetta che almeno da quelle parti le cose siano diverse, ma forse la burocrazia è burocrazia e basta, ovunque la si trovi.
L’impiegata batte qualche tasto sulla tastiera anonima e appare una schermata bianca e grigia.
– Denuncia di smarrimento ha detto, vero? –
– Sì. – prima che io finisca di rispondere ha già selezionato il tipo di scheda che le serve e la schermata si agghinda di tante caselle vuote.
– Nome? –
– Heresiae. –
– Professione? –
– Studente. –
– Residenza? –
– Ovunque. –
– Credo? –
– Nessuno. –
– Oggetto smarrito? –
– La Bussola. –
Trattengo leggermente il fiato ma l’impiegata non fa una piega e con il mouse si mette a cercare l’oggetto nell’elenco di un menù a tendina. Non posso far a meno di notare che ci mette un po’ a trovarlo, forse da quelle parti considerano l’ordine alfabetico obsoleto.
– Data dello smarrimento? –
Mi drizzo un po’ di più sulla sedia pensando che in effetti non lo so per certo. Come si fa a dire quando uno perde una cosa? Semmai posso dire quando mi sono accorta di averla persa. Esterno questo mio ultimo pensiero e l’impiegata modifica l’intestazione della casella.
– Luogo di smarrimento? –
– Venezia. –
– Può essere più precisa per favore? –
In quel momento penso che fosse un vero peccato che l’Anonimi S.p.A. dotasse i suoi prodotti di molta efficienza tecnica e velocità elevata di pensiero riguardo a dati archiviati e burocratici, ma senza quel briciolo di intelligenza in più che li avrebbe distinti da un qualsiasi automa.
– Le ho appena detto che mi sono accorta di averla persa molto dopo lo smarrimento. –
– Ho bisogno di un luogo preciso. –
Niente non capisce.
– Scriva casa mia se questo l’aiuta. –
E scrive.
– Sospetto di furto? –
Strabuzzò gli occhi. Lei, da brava impiegata anonima non mi degna di uno sguardo, sta ferma davanti allo schermo con le dita protese sulla tastiera in attesa di imput. Decido che non è il caso di sottolineare l’imbecillità della domanda.
– No. –
– Sospetti sul luogo in cui potrebbe trovarsi? –
– No. –
– Livello d’urgenza della denuncia? –
Faccia lei, mi sono persa quattro volte per arrivare fin qua.
Vedo l’impiegata scrivere ‘basso’ nella casella corrispondente e comincio ad alterarmi. Prima che possa protestare preme il tasto di invio e appare una pagina senza campi, ma con tutte le diciture prima inserite che lei comincia ad elencare con voce atona.
– Denuncia di smarrimento da parte della creatura Heresiae, studente, residenza globale, nessun credo; oggetto Bussola, data di smarrimento Domenica notte, luogo di smarrimento casa propria, no furto, livello urgenza basso. E’ tutto esatto? –
– Si, ma per il livello di urg… –
Preme il tasto di conferma e il computer da un bip soddisfatto di conferma invio dati. L’impiegata preme un altro tasto e la stampante dietro di lei si mette alacremente in moto. In meno di un minuto ho davanti a me uno stampato di quattro pagine in triplice copia da firmare.
– Firmi vicino alle x prego. – guardo dove ha apposto le x con la biro, vicino alle linee tratteggiate con accanto scritto ‘Firma del denunciante’. Vorrei dirle che io non vengo dall’Anonimi S.p.A. e che la mia fabbrica mi ha dotato di un cervello intelligente, ma mi mordo la lingua e prendo la penna nera anonima che mi porge, firmando.
Raccoglie velocemente in fogli, li pinza, me ne da una copia e si intasca le altre tre. Batte ancora un paio di volte sulla tastiera e si gira a guardarmi.
– Abbiamo finito. –
Devo ricordarmi di aver pazienza con gli automi, che a quanto sembra non hanno memoria a breve termine.
– Veramente vorrei fare anche una richiesta di sostituzione dell’oggetto smarrito. –
L’impiegata mi guarda senza muovere un solo muscolo, ma la maschera di lattice che ha addosso non basta a non far trapelare la goduria maligna che sta provando in quel momento. Sorride con falsa condiscendenza e si aggiusta gli occhiali sul naso.
– Mi spiace, ma in caso di smarrimento di oggetti intrinsechi alla persona non possiamo operare sostituzione. –
– Prego? –
– Vede, – apre un cassetto e tira fuori un tomo plastificato spesso quanto quattro volumi dell’enciclopedia, lo apre a colpo sicuro sulla lettera B, sfoglia ancora un paio di pagine, sorride e lo gira verso di me, – questi sono i parametri associati all’oggetto intrinseco Bussola. Come può leggere lei stessa non siamo in grado di operare sostituzione o riparazione alcuna. –
Scorro le pagine di descrizione dell’oggetto che è corredata anche da un’immagine in bianco e nero sulla destra.

Bussola
Categoria: oggetti intrinsechi
Proprietà: oggetto con funzione orientativa, che indica la direzione migliore da seguire alla persona che la detiene. Può essere utile in casi decisionali riguardanti sfera lavorativa, economica, affettiva, familiare, sentimentale, ideologica. Non è un oggetto vincolante, la persona decide in piena indipendenza dal responso della Bussola. E’ passibile di smarrimento e rottura.
Azioni: le bussole raccolte e archiviate vengono regolarmente comparate con le denuncie di smarrimento inoltrate e restituite al legittimo proprietario in caso di riscontro positivo. Non sono possibili: riparazioni, sostituzioni, ricerca specifica di una singola bussola (casi di eccezione elencati in seconda pagina strett. ris.)
Attenzione, la Bussola è…
L’impiegata mi sottrae il tomo dalla vista e lo richiude con un tonfo, appoggiandocisi con i gomiti.
– Mi dispiace, ora non le resta che aspettare, in caso di ritrovo verrà subito avvisata. Non c’è nient’altro che possiamo fare-
L’automa/impiegata mi elargisce un sorriso falso quanto un coltellino svizzero cinese. Improvvisamente la stanza mi sembra molto meno anonima: le stampe del calendario anonimo rivelano il ghigno sadico che nascondo tra le macchie colorate, i raccoglitori anonimi sembrano sporgersi per guardare meglio il mio sconforto, con l’occhio lucido dal riso aperto poco sotto sulla fascetta; la stampante lampeggia gioiosa, il computer sfrigola soddisfatto, la luce nel neon illumina un po’ di più, i sassi del pavimento cominciano a risalire le pareti per vedere meglio e gli occhiali della donna mandano il riflesso del neon, rendendo il suo un ghigno malefico senz’occhi, accecandomi; l’aria si fa umida e asfissiante.
Mi alzo, ringrazio a mezza voce, ed esco da quell’ufficio prima che anche le matite e le sedie si uniscano all”orgasmo di gruppo di quell’ufficio. Chiudo la porta dietro di me e tiro un sospiro di sollievo, immaginando la donna che segna una tacca in più dietro allo schermo anomino del suo computer anonimo nel suo ufficio di nuovo anonimo. Ho in mano la denuncia di smarrimento, la guardo: anonima, uguale a tutte le altre che gli saranno già pervenute.
Attraverso il corridoio che ospita ancora le stesse persone che ho visto prima di entrare nell’ufficio, sono più annoiate e rassegnate di prima e lo sguardo sembra spegnersi poco a poco. I manifesti continuano a occhieggiare dalle pareti cercando di catturare lo sguardo degli astanti, che sicuramente ormai li conoscono a memoria e stanno ripetendosi gli slogan mentalmente. L’aria è calda e viziata, vedo la signora anziana di prima che guarda la finestra posta in alto, vicino al soffitto, inesorabilmente chiusa. Esco e mi ritrovo nell’androne delle scale. Respiro l’aria più fresca e guardo il manifesto furbo alla mia destra che indica l’efficienza degli uffici e scoraggia il proseguimento delle scale verso gli altri credi; ha appiccicata una grossa freccia disegnata a mano con il pennarello nero.
Scendo velocemente i gradini della piccola scala in sasso e ringhiera di metallo laccato malmessa. Cerco di sfuggire ai muri da intonacare tappezzati di manifesti e alla plastica gialla rovinata che sostituisce la classica verniciatura inferiore. Oltrepasso le due porte dell’anticamera e mi trovo in strada. L’aria è fredda, è umida, è opaca, ma dà sollievo. La testa comincia a pulsare e mi chiudo il cappotto per evitare malanni di sorta, infilo il cappello sperando di prevenire il raffreddore. Mi stringo il busto con le braccia e guardo davanti a me: c’è poca gente in giro, qualche fattorino che corre da un palazzo di uffici all’altro e qualche poveraccio che deve affrontare uno degli automi e sperare di ottenere quel che gli serve. Non ce ne sono molti, forse hanno capito e tutti gli altri evitano queste questioni burocratiche, pensando che se né si ha già a basta di quelle normali senza andare a cercarne altre. Forse sono semplicemente più furbi di me e hanno provveduto a legare i loro oggetti intrinsechi, forse loro non hanno maltrattato il loro angioletto custode e ora è lì che li aiuta a consultare la loro Bussola e a tenere in ordine la borsa.
Guardo la mia. E’ grossa, informe, con la cerniera rotta e piena di briciole, la fascia a tracolla che non tiene mai la lunghezza giusta, gli oggetti che si perdono nel fondo e non si trovano mai, anche se sono lì. Non ha strappi o cuciture allentate, è ancora robusta nonostante l’uso negligente che ne faccio. Non riesco a capire come diamine ho fatto a perderla in quel modo. Chissà dove l’ho lasciata quella Bussola. Ho ancora in mano la denuncia di smarrimento, la guardo e la piego con cura, poi la poso in una delle tasche della borsa, sicura che finché non la leverò non la perderò.
Mi incammino verso i cancelli leggermente offuscati dall’umidità. Quella non è nebbia da Giganti, è vapore e basta; dà fastidio, ma mi hanno detto che lì è perenne.
Senza una ragione precisa mi viene in mente la scritta tutta in neretto in fondo alla pagina della bussola, chissà cosa diceva. Mi viene il sospetto che in realtà quel manuale sia a uso e consumo unicamente degli impiegati e che non avrebbe dovuto farmelo leggere; però è servito egregiamente come oggetto di scena, detto a voce non sarebbe venuta così bene.
Il Guardiano è chiuso nella sua guardiola e non mi degna nemmeno di uno sguardo mentre oltrepasso i cancelli: il suo locale è tappezzato di monitor, ma la sua attenzione è concentrata su uno solo, che non è in bianco e nero e non manda immagini statiche. Sento voci concitate provenire dal gabbiotto e spero che non sia uno dei talk show televisivi tipicamente umani. Non anche lì per favore!
Fuori c’è un dragobus tondo, sbuffante, bianco e blu, carico umidità e qualche persona. Salgo e mi accomodo su uno dei sedili in simil pelle marrone in fondo. Non c’è quasi nessuno e io tento di assicurarmi un viaggio solitario posando la borsa sul sedile accanto al mio; ho le braccia sempre strette a me, in un autoabbraccio consolatorio, mi manca la mia Bussola, non ho la più pallida idea di come farò senza di lei.
Dopo qualche minuto il dragobus parte. Non è salito più nessuno dopo di me, la gente deve aver proprio cominciato a perdere la fiducia, o forse hanno cominciato a seguire i vecchi proverbi come si deve. Asciugo il vetro dall’umidità e leggo il cartello che saluta allegramente:

Grazie per la vostra visita
Gli uffici del Grande Manovratore sono sempre a vostra disposizione
Efficienza, cortesia e speranza
Tornate quando volete

Nell’ufficio oggetti smarriti un’impiegata sorseggia il suo caffè e legge la pagina con una grossa bussola disegnata sopra, sorridendo quando rilegge le regole che l’hanno aiutata a liberarsi di quella scocciatrice. Sta per chiudere il tomo quando lo sguardo gli cade sulla scritta in grassetto: curiosa, lo legge non ricordando quella scritta nel precedente manuale.

Attenzione, la Bussola è un oggetto con proprietà caratteriali simili al proprietario, capacità decisionali proprie e collegamento empatico con persona detentrice. Si consiglia massima cautela. Ogni denuncia di smarrimento deve essere prontamente segnalata alla Squadra Speciale Accalappiatori, al Bussonile e al comando di guardia di zona. Pregasi trattare i denuncianti con cortesia.

L’impiegata per poco non si strozzò. Cercò freneticamente il telefono versandosi addosso il caffè e compose il numero sbagliandolo tre volte di seguito, afferrando contemporaneamente da uno scaffale gli orari dei draghibus di quella stagione. Con un moto di sconforto si rese conto che ne era appena partito uno.
Quando finalmente prese la linea, fece un sospiro profondo e filtrò la sua voce con una maschera che si era procurata sulla Terra in un mercatino dell’usato privo di ricevuta fiscale. Fece un giro di telefonate seguendo il regolamento, poi contattò un suo ‘amico’ di stanza al Bussonile e gli mandò il codice a barre delle Bussola corrispondente promettendogli una ricompensa speciale se lo avesse fatto subito e velocemente. Un quarto d’ora dopo si rilassò: la Bussola della scocciatrice non era ancora stata trovata e probabilmente non l’avrebbero trovata mai.
Andò nel locale attiguo, si cambiò gli abiti, si fece un altro caffè e tornò alla sua scrivania. Il prossimo problema della giornata era come liberarsi della scomoda promessa appena fatta.

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